A Forlì nell'ottobre del 1938, sotto gli auspici del Duce e alla presenza del Re, si inaugurava la mostra su Melozzo e il Quattrocento romagnolo, fondamentale seppure inquadrata in una celebratività stentorea, volendosi dimostrare che Melozzo era stato l'alfiere della cultura romagnola del Rinascimento; però Melozzo in quella mostra non c'era, c'erano gli altri ma non lui: il papa non aveva acconsentito ai prestiti, perchè forse aveva capito che “il vento stava cambiando”: erano state approvate le leggi razziali, era stato firmato il patto Roma-Berlino, Hitler era venuto in Italia in vista ufficiale. La successiva mostra del 1994 (curata da Stefano Tumidei, a cui la presente è dedicata) aveva ben inquadrato il profilo biografico e socio-culturale di Melozzo. Oggi i curatori Paolucci, Minardi e Benati hanno riunito a Forlì tutto il Melozzo esistente, comprese le icone proverbiali della bellezza e l'affresco del Platina, uscito per la prima volta dal Vaticano dopo 535 anni. E la mostra è di grande bellezza e immediata comprensibilità.
Paolucci dice che “senza Melozzo, difficilmente si spiegherebbe Raffaello”: la conoscenza di Mantegna, forse appresa durante un soggiorno patavino, e soprattutto di Piero della Francesca porta Melozzo ad aderire alle nuove certezze della prospettiva matematica, salvo poi intraprendere una personale ricerca sulla bellezza della figura umana, in grado non solo di possedere lo spazio entro cui si colloca, ma di imporsi come canone di perfezione formale su tutto il creato. Quindi il punto di partenza è la misura matematica dello spazio pittorico (Piero), quello di arrivo è la bellezza ideale (Raffaello): ecco il sottotitolo della mostra, che affianca alle opere di Melozzo capolavori di artisti con cui entra in contatto nel corso della formazione e della vita lavorativa.
La prima sezione “Sperimentazioni prospettiche tra Romagna e Veneto” documenta la formazione di Melozzo. Se fino all'Ottocento si propendeva per una formazione ad Urbino con Piero della Francesca e gli artisti nordici operanti nello studiolo di Federico da Montefeltro, l'anticipazione agli anni Settanta del Quattrocento del ciclo romano dei Santi Apostoli dimostra l'estraneità di Melozzo dal contesto urbinate, che conoscerà solo in seguito, e dà spazio a Padova, confermata dalla prima opera attualmente riferita alla sua fase giovanile, gli sportelli degli Uffizi. A Padova aveva già lavorato alla metà del secolo Ansuino da Forlì; il giovane Melozzo si dimostra in grado di dialogare coi supremi modelli lasciati a Padova da Mantegna, ma anche di declinare quel primo referente con altre esperienze, soprattutto con gli esiti della cultura pierfranceschiana diffusa già negli anni Sessanta tra Urbino, Ferrara, Rimini e Bologna.
Il nome di Melozzo è attestato tra il 1460 e il 1465 in alcuni documenti di archivi forlivesi relativi a compravendite effettuate dalla madre Giacoma: qui viene detto “pictor”, ma figura anche col titolo di “magister”. Già Luigi Lanzi (1795-96) evidenziava nell'attività romana influssi padovani. Dal 1886 si fa avanti la strada della formazione urbinate, in rapporto con Piero e gli artisti nordici operanti nello studiolo di Federico, concluso nel 1476, idea oggi messa in discussione, come detto.
Entrando nella sala, ci si trova di fronte il dittico degli Uffizi, con Angelo annunciante e Vergine annunciata sul recto, San Prosdocimo e San Giovanni evangelista sul verso dai panneggi stupefacenti per vigore plastico e impasto cromatico. Intorno il veneziano Francesco Pelosio, attivo tra Imola e Bologna e seguace dei Vivarini; la Sant'Eufemia di Mantegna, vista dal basso, cesellata come una scultura; la “Sacra Famiglia” di Ansuino da Forlì; l'affresco del “Pestapepe”, già attribuito a Melozzo; due santi di Bono da Ferrara; il busto di Ordelaffi della pinacoteca forlivese.
La seconda sezione, “Tra matematica e natura: Piero e Urbino”, è sempre esposta nella prima sala, ad intrecciare la precedente. La cultura urbinate era già aperta a esperienze toscane, grazie ad artisti come Fra Carnevale (a cui fra 2004 e 2005 fu dedicata una mostra epocale a Brera e al Metropolitan di New York City), operoso a fianco di Filippo Lippi, pittore ed architetto di Federico da Montefeltro. Alla corte di Urbino ci sono due artisti fiamminghi, Giusto di Gand e Pedro Berruguete: la congiuntura è irripetibile, se si considera che nel 1469 Piero è ospite nella casa di Giovanni Santi, padre di Raffaello. La restituzione della figura umana secondo una precisa norma geometrica imposta dagli studi sulla prospettiva viene ampiamente dibattuta nel “De prospectiva pingendi” a cui Piero si dedica negli ultimi anni della sua vita.
In esposizione due capolavori che consentono di seguire il percorso di Piero: il giovanile San Gerolamo con devoto e la restaurata Madonna di Senigallia, eseguita ad Urbino, dove si colgono i suggerimenti degli artisti nordici nella consistenza della luce e nella definizione dei dettagli. Vediamo i due angeli come attendenti; la casa diventa una scatola prospettica di pietra serena; a sinistra un miracolo meteorico: dalla finestra aperta entra un fascio di luce che incendia i capelli dell'angelo e rivela il pulviscolo, epifania dorata, risveglio primaverile. È l'insuperata sintesi fra la misura italiana e l'occhio fiammingo del soffermarsi incantati di fronte ai “minima”. La prospettiva, infatti, era intesa come lo strumento concettuale per dare ordine al mondo, equilibrio, proporzione, insomma il modo razionale di controllare il mondo visibile; invece per i fiamminghi il mondo era reso comprensibile non dalla prospettiva ma dalla luce, medium che tiene insieme il mondo visibile.
Come ricordato, nel 1469 Piero è ospite di Giovanni Santi, padre di Raffaello, per prendere accordi per una pala, poi eseguita da Giusto di Gand, mentre la predella, celeberrima, è di Paolo Uccello (in mostra). Le esperienze toscane della corte di Urbino sono documentate con Fra Carnevale (Ritratto d'uomo). Ma la novità più significativa della città ducale è la presenza a corte di due artisti della scuola fiamminga, Giusto di Gand e Pedro Berruguete, ai quali Federico affida la realizzazione degli Uomini illustri per il suo studiolo, completato nel 1476 (Ambrogio e Boezio sono in mostra, insieme a una Pietà e a una Madonna con Bambino di Berruguete). Caduta l'ipotesi che anche Melozzo abbia partecipato all'impresa, resta l'influenza di quella cultura nell'affresco del Platina e nel ciclo di Loreto. Prima di arrivare ad Urbino, Berruguete aveva sostato nelle Romagne, in quanto suoi riflessi si colgono nel Maestro di Valverde e nel Maestro della pala Bertoni. Chiude la sala una flagellazione del perugino Pietro Galeotto, che suggestivamente si vorrebbe attribuire al giovane Bramante.
La terza sezione, “Misura e grazia: verso una nuova bellezza”, evidenzia il superamento della prospettiva come regola matematica verso una bellezza più naturale ed umana. Ciò è ben esemplificato dal confronto ravvicinato tra la Testa di Cristo di Beato Angelico e il Salvator Mundi di Melozzo: il primo assai semplificato, il secondo denota una ricerca la verità nella luce e nella pelle, emblemi di un diverso, più moderno sentire che pone anche la dimensione divina nell'umano. Il tema dell'umana bellezza percorre l'intera opera di Melozzo e può essere preso come riferimento per l'intera mostra. Infatti le opere presenti in questa sezione vanno in direzione di una bellezza sentita non soltanto come proporzione tra le parti, ma come grazia, non scevra di una ricercata eleganza formale. A latere si tratta il nuovo culto delle antiche icone promosso dalla corte papale. Beato Angelico, Benozzo Gozzoli, Perugino segnano il percorso.
Proprio nella capitale pontificia porta la successiva sezione, “Melozzo e il Rinascimento a Roma”. L'arrivo di Melozzo a Roma risale alla fine degli anni Sessanta, se è davvero possibile datare al 1470 un anonimo epigramma in cui viene citato il suo nome. La sezione illustra l'inserimento di Melozzo tra gli artisti attivi alla corte papale di Paolo II e Sisto IV, corte che si era aggiornata dal linguaggio tardogotico locale in direzione fiorentina. Il primo interlocutore del forlivese è Antoniazzo Romano, di cui sono in mostra la Madonna del latte (da Rieti, 1464) e il San Sebastiano martire (da palazzo Barberini, 1483), attribuito a Melozzo nella mostra del 1938. Seguono Antonio da Viterbo, Sandro Botticelli (il bellissimo “Ritorno di Giuditta da Betulia” degli Uffizi), Bartolomeo della Gatta, Ghirlandaio. E, last but not at least, i due San Marco (papa ed evangelista) di Melozzo restaurati miracolosamente.
Al centro della sezione successiva, “Melozzo pittore papale. La gloria dell'umana bellezza”, il grande affresco del Platina che esce dal Vaticano per la prima volta. La bellezza prospettica dello spazio e delle figure e i colori lo rendono un capolavoro assoluto, oltre che un documento di eccezionale importanza, emblema dell'alleanza fra la Chiesa di Roma e la cultura: nel 1475 Sisto IV affida a Bartolomeo Platina, raffigurato inginocchiato, la responsabilità della biblioteca apostolica vaticana, che in quell'anno veniva aperta al pubblico. Platina è un tecnico, non un parente, un amico, un sostenitore politico del papa, il quale, per la prima volta, sanciva che la potestà normativa e prescrittiva sui beni culturali doveva essere affidata a un tecnico.
Intorno le figure di leggendaria bellezza della basilica romana dei Santi Apostoli: apostoli e angeli che impongono al visitatore lunghe soste in contemplazione in quanto quegli uomini e quegli angeli sono la misura insuperata dell'umana bellezza, misura sulla Terra della bellezza del Paradiso.
Poi una deviazione verso la sezione “L'alleanza tra la Chiesa e le arti”, con sculture e rilievi marmorei, gli stupefacenti paliotto e piviale di Sisto IV (da Palermo, palazzo Abatellis) e codici, sui quali ultimi ci riferisce Simone Manfredini. Di straordinario pregio anche il settore paleografico, dove vengono esposti, insieme ad un incunabolo, ben sette manoscritti, tutti fabbricati fra il 1470 e il 1490, redatti in bella gotica libraria o in umanistica. Si trovano codici liturgici in senso stretto, come due dei quattro volumi del Messale del cardinale Domenico della Rovere, il Pontificale del cardinale Marco Bembo o il Breviario confezionato per il canonico di San Pietro Giovanni Battista Girardi; accanto ad essi, i Moralia in Iob di Gregorio Magno, mirabile esempio di esegesi del testo biblico, imprescindibile già in epoca medievale per una buona formazione teologica, il commentario In epistolas sancti Pauli di Teofilatto di Bulgaria, la strenua difesa del potere spirituale redatta contro gli scismatici dal canonista Alvaro Pelagio dal titolo In Alvarum hispanum de planctu de ecclesie e, infine, il De sanguine Christi e il De potentia Dei di Francesco della Rovere (esposti in incunabolo). Inutile dire come l'importanza di questi codici non risieda tanto nel loro contenuto, bensì nella qualità estremamente elevata della loro decorazione, realizzata in tutti i casi, se si eccettuano i Moralia in Iob che furono ornati da un miniatore di origini padovane, dal cosiddetto Maestro dei Messali della Rovere, un francese attivo anche a Roma nella seconda metà del Quattrocento: la qualità di un pennello non secondo certo a quello più celebre della pittura su tavole o su tela è evidente anche ad un primo sguardo.
La settima sezione, “Verso la maniera moderna”, si occupa della fase tarda di Melozzo, precedente alla cappella De Feo, fase di cui abbiamo pochi dipinti mobili. La sezione si concentra sulla ricerca della umana bellezza, sviluppata dagli artisti dell'epoca di Raffaello, una ricerca che si assesta e si codifica in un formulario di ritmo e movenze al quale solo il giovane urbinate infonderà nuova vita. Le opere sono celeberrime: la pala di Faenza di Marco Palmezzano, i ritratti di Francesco delle Opere (Uffizi) e di Uomo (Galleria Borghese) di Perugino (sua anche una incredibile Annunciazione di collezione privata: l'interno-esterno di sontuosa prospettiva rinascimentale, le figure di morbida e teatrale eleganza – leggete la precisa scheda in catalogo di Francesco Mancini), l'Annunciazione di Volterra di Luca Signorelli (che collabora con Melozzo a Loreto) e la sua Crocifissione da Sansepolcro.
La sezione ottava, “Raffaello e la perfezione dell'umana bellezza”, conclude l'itinerario nel secondo Quattrocento italiano, che vede Melozzo al centro di una ricerca volta a superare il concetto di bellezza come pura proporzione matematica. Così è Raffaello, la cui pittura Vasari chiama “maniera moderna”, sintesi perfetta tra Natura e Ideale. Al centro l'Ebe di Canova, perchè Canova sarà il “nuovo Raffaello”, secondo la definizione del papa che lo nominò direttore dei musei vaticani, incarico che era già stato di Raffaello. Di Raffaello sono in mostra l'Angelo della Tosio Martinengo, il San Sebastiano della Carrara ed i frammenti della pala di San Nicola (da Capodimonte).
All'inizio del percorso, al piano terra, i visitatori sono accolti dal San Giuliano di Piero (proveniente da Sansepolcro e coevo della Leggenda della vera croce), da un ritratto a penna di Melozzo (“Uomo” da Berlino”) e da una copia del “De prospectiva pingendi” di Piero conservato alla biblioteca palatina di Parma. Subito dopo una ricostruzione in 3D della cupola della sagrestia di Loreto, le foto dei distrutti affreschi della cappella De Feo nella chiesa di San Girolamo ora San Biagio a Forlì (commissionati da Caterina Sforza, vedova di Girolamo Riario e signora di Forlì, in onore del secondo marito Giacomo De Feo e realizzati da Melozzo insieme a Marco Palmezzano) e una interessante sezione sulla mostra del 1938 coi suoi manifesti pubblicitari di regime.
L'imperdibile catalogo SilvanaEditoriale contiene una presentazione di Antonio Paolucci, che da sola, per chiarezza ed esaustività, merita l'acquisto del volume; fonti e testimonianze su Piero della Francesca sono curate da Frank Dabell (assai interessante la parte su Ancona, poco conosciuta se non dagli addetti ai lavori); gli anni di Melozzo a Roma sono indagati da Gerardo de Simone; la sezione paleografica è curata da Gennaro Toscano; Mauro Minardi affronta il rapporto tra Melozzo e Urbino e Daniele Benati il tema Melozzo tra Loreto e Forlì. Seguono tutte le opere con foto perfette e schede esaurienti, divise per sezioni espositive. Quindi gli affreschi, Loreto e Forlì. Poi materiali ed apparati, non meno interessanti, soprattutto la mostra del 1938, i paralleli con Achille Funi e Mario Sironi, oltre alle vicende conservative ed ai restauri, miracolosi quelli dei due San Marco. Chiudono documenti e bibliografia.
Forlì, Musei San Domenico, fino al 12 giugno 2011, aperta da martedì a venerdì dalle 9,30 alle 19, sabato, domenica e festivi dalle 9,30 alle 20 (lunedì chiuso), ingresso euro 10,00, catalogo Silvana Editoriale, infoline 199.757515, sito internet www.mostramelozzo.it
FRANCESCO RAPACCIONI